il libro si trova poggiato su una roccia, vicino ad un calmo ruscello, dagli argini rigogliosi, sull'immagine si trova il titolo del libro, ovvero Non dirmi che hai paura, edito nel 2014 e scritto da Giuseppe Catozzella

"Quel giorno ho vinto. Per la prima volta. La mia prima vittoria. La gara si concludeva con un giro di pista davanti a un nutrito gruppo di spettatori.
Per tutti gli eventi sportivi veniva utilizzato lo stadio Cons, che era vecchio, martoriato dai proiettili, con le tribune cadenti e impalcate a ridurre i rischi di caduta, la pista crivellata dalle schegge delle granate.
Lo stadio nuovo, da quando era iniziata la guerra, veniva usato come deposito per l'esercito. Al posto degli atleti, nel prato c'erano i carri armati e i militari. Sugli spalti, anziché il pubblico, gli ufficiali.
Da lontano, arrivando, stremata, mi sono resa conto di quanto lo stadio Cons fosse decrepito, mutilato dalle bombe. Fino a cinquecento metri da quell'architettura distrutta ero ancora quarta. Svoltato nella Jidka Warshaddaha, con la sagoma irregolare dello stadio che si profilava all'orizzonte, ho sentito nella testa la voce di Alì che mi incitava a prendere il vento nella schiena e andare a vincere. Non so da dove ho recuperato le forze, ma ho cominciato a volare. Ho sorpassato i due ragazzi che mi precedevano, uno dopo l'altro. All'ingresso nello stadio quasi mi tremavano le gambe per la quantità di gente seduta sugli spalti. Si percepivano l'agitazione, le loro aspettative, il fatto che fossero lì per vedere qualcuno vincere.
E quel qualcuno volevo essere io.
Sono entrata nello stadio da seconda. Metro dopo metro, sulla pista di tartan bucherellata, mi sono resa conto che il primo aveva dosato male le energie. Io sentivo di averne ancora una riserva, mentre lui stava arrancando, sfiancato, perdeva metri a ogni passo. Poi è accaduto il miracolo: la gente sugli spalti ha cominciato a urlare e a chiamarmi abaayo. Sorella. Si erano accorti che ero più veloce e volevano che vincessi. Mi incitavano: abaayo, abaayo.
Ogni parola mi dava una spinta in più.
Dopo la prima curva avevo già raggiunto il primo, e in quattro falcate l'ho superato. A quel punto il pubblico si è alzato in piedi, incredulo ed eccitato. Tutti applaudivano alla piccola abaayo. Un applauso ritmato, che mi ha incalzato ancora di più. Clap-clap. Clap-clap. Clap-clap, le gambe avanzavano come onde condotte da un'energia che non era la mia, erano loro che tiravano me come una motrice fa con il rimorchio, o come le onde fanno con il mare.
Ho tagliato il traguardo per prima. Mi è sembrato incredibile.
Con le braccia alzate ho corso gli ultimi metri dopo l’arrivo, trasportata dalla rincorsa di tutti quei chilometri.
Poi mi sono piegata sulle gambe e ho sentito uno strano calore alle guance: due lacrime, senza che lo volessi, sulla mia faccia da piccola guerriera. Me le sono asciugate subito, prima di tirarmi in piedi, stanca morta ma gonfia di energia. Avrei potuto girare i talloni e rifare il percorso al contrario, da capo.
La folla attorno esultava, gridava, divertita e felice. Mentre tutti gioivano come impazziti ho percepito i loro pensieri: è impossibile che abbia vinto, è poco più di una bambina. Era impossibile anche per me. E invece, dopo qualche minuto di stordimento, mi hanno infilato una medaglia al collo. Stava lì a dire che era tutto vero.
Con Alì abbiamo aspettato negli spogliatoi che la folla abbandonasse lo stadio. Lui voleva parlare con un sacco di gente che gli chiedeva chi ero. Si presentava come il mio allenatore, e la cosa faceva ridere tutti, perché aveva dieci anni. Era alto, per la sua età, alto e secco, ma anche lui era poco più che un bambino. Eppure erano anni che si comportava come un uomo.
Per tornare a casa abbiamo rifatto la strada della gara. Alì mi raccontava la sensazione che aveva provato quando mi aveva vista entrare dalla porta dello stadio, e l'esaltazione della folla quandoavevo compiuto il sorpasso. Fremeva.
Ogni tanto, come spesso capitava, incrociavamo qualcuno che mi squadrava dalla testa ai piedi e scuoteva il capo vedendomi vestita da maschio, oppure masticava qualche parola sottovoce prima di andare via. Più o meno a metà strada ci ha fermati un uomo anziano, barba lunga e viso ossuto. Dopo avermi guardata con disappunto ha attaccato con la solita storia. "Dove sono lo qamar, lo bijab e la diric, eh bambina? Ti sei forse dimenticata di vestirti, oggi?"
"Lei è un'atleta, signore" ha risposto per me Alì. "E ha appena vinto una gara. Esige il rispetto che gli atleti si meritano."
Era la prima volta che sentivo dire per strada che ero un'atleta.
Il vecchio ci ha guardati stralunato, senza sapere bene cosa rispondere. "E tu? Se lei è un'atleta tu chi saresti?" ha chiesto.
"Io sono il suo allenatore. E il suo portavoce. Quando questa atleta un giorno sarà conosciuta in tutto il mondo, voi, signore, vi ricorderete di questa conversazione."
A quel punto ci siamo guardati e siamo scoppiati a ridere. L'uomo ha bofonchiato qualcosa e si è allontanato scuotendo la testa.
Ero diventata un'atleta. Per la seconda volta, dal giorno in cui Alì aveva deciso che sarebbe stato il mio allenatore. Ma questa volta di più."

Per accompagnare

Per stravolgere